Uno sguardo sull’incidenza dello scorrere del tempo sull’estinzione del reato penale: la prescrizione quale garanzia per l’equo processo

da | Mag 6, 2020 | Diritto Penale

Una volta che il processo (o meglio il procedimento) ha avuto inizio l’unico interesse (rectius diritto) da tutelare al massimo grado è quello dell’indagato-imputato. Una volta che la memoria della collettività è stata destata dal processo l’unica funzione è la specialpreventiva e l’unica tensione alla tutela deve protendere verso i diritti dell’imputato. Il processo deve tendere alla rieducazione ed al recupero dell’individuo. La disciplina della prescrizione del reato penale, una volta che ha avuto inizio il rito della memoria, deve assicurare la ragionevole durata del processo quale garanzia soggettiva dell’imputato.

 

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Negli ultimi tempi non mancano duri attacchi all’ossatura stessa del processo penale.
Con l’emergenza epidemiologica in atto abbiamo visto attaccare gli stessi cardini dei principi di Chiovendiana memoria che dovrebbero garantire un equo processo. Con i procedimenti da remoto pare impossibile garantire le quattro colonne che sorreggono l’edificio del processo penale: concentrazione, immediatezza, oralità, pubblicità.
L’udienza telematica mina le fondamenta stesse del dibattimento. Risparmiare sui materiali di costruzione di un edificio è la cronaca annunciata di un disastro. Come nelle peggiori speculazioni edilizie che portarono al rovinoso crollo di Wall Street del 1929, è già stata utilizzata terra al posto del cemento per la concentrazione e concentrazioni acqua/cemento sbilanciati per l’immediatezza. Destabilizzare anche le altre due colonne porterebbe all’irreparabile. L’oralità del dibattimento, infatti, si fonda sul confronto diretto, come può essere garantita nell’udienza telematica? Risulta poi intuitivo come nessuna garanzia vi sarebbe per la pubblicità nelle udienze da remoto.
Anche dopo l’ultimo Decreto Legge, con l’esclusione delle attività istruttorie e della discussione per i processi da remoto, non significa che la previsione della smaterializzazione dell’udienza penale non continui a rappresentare un vulnus al processo accusatorio.
Tali Principi risultavano già annacquati in una mai paga ricerca di connubio fra istanze di riforma e di gestione del processo, con giuristi che propagandano sistemi accusatori sulle labbra ma inquisitori nel cuore. Ben più forte è sempre stato il potere rispetto alla dialettica. Certo la dialettica resta pur sempre attraente ma ormai relegata in un angolo autocelebrativo e vista quale velleità dilatoria di avvocati: non è più percepita come massimo baluardo per una difesa effettiva nel contraddittorio delle parti ma come una vanitosa perdita di tempo.
Proprio per evitare tali perdite di tempo, una riforma sulla prescrizione sorretta da propaganda di stampo elettorale, rischia di minare diritti inviolabili che dovrebbero essere garantiti ad ogni imputato in quanto uomo. Per questa emergenza, speriamo contingente, oggi come oggi rischiamo di dimenticare il duro attacco mosso a tale istituto.

La ratio di garanzia della prescrizione è professata tanto nella nostra Costituzione (artt. 24, 27, 111) quanto dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (art. 6): tutelare il cittadino dal pericolo di trovarsi esposto al potere punitivo dello Stato per un tempo non prevedibile e garantire la ragionevole durata del processo.
La prescrizione del reato penale determina l’estinzione dello stesso a seguito del decorso di un determinato periodo di tempo dal momento della sua consumazione, senza che sia intervenuta una sentenza definitiva di condanna.
Con la riforma di cui alla L. 3/2019 (c.d. “riforma Bonafede”), al contrario, si è radicalmente riformato la disciplina della prescrizione prevedendo un blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado.
Tale concezione pare sposare riabbracciando quelle concezioni assolute della pena che rigettavano l’istituto della prescrizione, in quanto la sanzione era ritenuta sempre indefettibile.

Ma andiamo ad indagare in maniera più approfondita il fondamento dell’istituto per comprendere come la riforma crea un vulnus in diritti fondamentali dell’individuo.
La teoria retribuzionista appare non fondata. È ingenuo pensare che il decorso del tempo senza un accertamento definitivo provochi un’angoscia determinata dall’attesa della pena.
Nella funzione specialpreventiva pare potersi ravvisare un fondamento dell’istituto. Lo scorrere del tempo incide sulla personalità dell’individuo ed è quindi necessario delimitare cronologicamente la dinamica della pena. Irrogare una sanzione, su un soggetto con valori differenti, priverebbe di effettività la pena su un attore che potrebbe essere ormai reintegrato nei valori della società.
Anche nella funzione della prevenzione generale della pena pare potersi ravvisare i tratti fondamentali dell’istituto. La funzione generalpreventiva indaga l’incidenza del tempo sul rilievo che il fatto di reato assume per la collettività destinataria delle norme incriminatrici. Il trascorrere del tempo dalla consumazione del reato affievolisce progressivamente la percezione collettiva del suo disvalore e della reintegrazione dei valori lesi protetti dalla norma.
In realtà all’istituto della prescrizione paiono potersi applicare entrambe tali funzioni. Il fondamento della prescrizione pare, quindi, dividersi in due momenti: l’oblio (generalpreventiva) e il processo della memoria (specialpreventiva).
Fintanto che il processo non ha inizio, la percezione collettiva tende all’oblio e quindi la prescrizione del reato è senz’altro funzionalmente connessa alla prevenzione generale. In questa fase l’interesse da tutelare può essere visto nel bene leso e quindi nella persona danneggiata dal reato a veder reintegrati gli interessi protetti dalla norma incriminatrice violata.
Una volta però che il processo (o meglio il procedimento) ha avuto inizio l’unico interesse (rectius diritto) da tutelare al massimo grado è quello dell’indagato-imputato. Una volta che la memoria della collettività è stata destata dal processo l’unica funzione è la specialpreventiva e l’unica tensione alla tutela deve protendere verso i diritti dell’imputato. Il processo deve tendere alla rieuducazione ed al recupero dell’individuo. La disciplina della prescrizione del reato penale, una volta che ha avuto inizio il rito della memoria, deve assicurare la ragionevole durata del processo quale garanzia soggettiva dell’imputato.

Anche se era auspicabile un ripensamento della normativa, tale garanzia è stata del tutto affievolita e quasi eliminata con le riforme che si sono succedute negli ultimi tre anni.
L’originario impianto normativo del 1930 è stato negli ultimi quindici anni oggetto di tre importanti interventi di riforma.
La Legge 251/2005 (c.d. “ex Cirielli”) è intervenuta, in particolare, sulle modalità di calcolo del tempo necessario a prescrivere. Incidendo profondamente sul precedente assetto normativo, si abbandonava il sistema di scaglioni, previsto dal Codice Rocco, sostituendolo con termini di prescrizione differenziati in base al massimo della pena edittale prevista per ciascun reato e sottratti alla discrezionalità del giudice. Venivano, inoltre, introdotti criteri in grado di dilatare la durata della prescrizione per soggetti recidivi, dichiarati delinquenti abituali o professionali.
Ma venendo alle riforme che più hanno inciso sui diritti dell’imputato, di recente la L. 103/2017 (c.d. “riforma Orlando”) ha introdotto due nuovi periodi di sospensione (endoprocessuale, interruzione? Difficile qualificare la modifica apportata) del corso della prescrizione decorrenti, rispettivamente, dalla sentenza di condanna in primo ed in secondo grado, all’evidente scopo di allungare i termini di prescrizione durante lo svolgimento del processo.
Da ultimo, la L. 3/2019 (c.d. “riforma Bonafede”) ha abrogato le disposizioni in tema di sospensione del corso della prescrizione introdotte poco più di un anno prima, prevedendo un blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado (anche se di assoluzione) o dopo il decreto penale di condanna, sino alla esecutività della sentenza che definisce il giudizio o all’irrevocabilità del decreto penale di condanna.
Tale riforma va a creare problemi, anche, pratici neppure presi in esame dal legislatore.
Con il corso della prescrizione interrotto, il processo può proseguire per anni a danno non solo del diritto dell’imputato alla ragionevole durata del processo ma anche della parte civile. Se l’azione civile promossa in sede penale dovesse avere una risposta tanto ritardata, il soggetto danneggiato dal reato che intende far valere innanzi al giudice penale la propria domanda di risarcimento o di restituzione, abbandonerà tale sua domanda per proseguire l’azione in sede civile. Bene, in tale evenienza, cosa ha previsto il legislatore nella non peregrina ipotesi di contrasti di giudicati? La risposta è lapidaria: NIENTE.
Per concludere, invece di porre rimedio alla lungaggine dei processi, in ogni caso, tale riforma pare ancor di più ingigantire il problema del ritardo nel contenzioso: con la differenza che, anche questa volta, a pagare tale prezzo sarà l’imputato: solo contro il potere punitivo di quello Stato che oggi come oggi tanto ama vestirsi da Leviatano.

Avvocato Massimo Forte

P.S. Un sentito ringraziamento a Gianpaolo, alle Camere Penali di Massa e La Spezia e alla Scuola Spezzina dell’UCPI per i sempre preziosissimi spunti di riflessione offerti.

 

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