La sentenza che si segnala all’attenzione dei lettori, dimostra come non sempre, nel nostro ordinamento, debba prevalere la forma rispetto alla sostanza.
Nel caso di specie, di discuteva del riconoscimento in favore della ricorrente del cd bonus bebè introdotto con legge 190/2014.
Soltanto allo scopo di meglio inquadrare i termini della questione, si ricorda che il bonus bebè, fino allo scorso anno (nel 2020 vi sono state importanti modifiche riguardo ai requisiti), poteva essere richiesto dai genitori in possesso di un ISEE inferiore al limite di Euro 25.000,00.
Per ottenere dall’Inps il rilascio della certificazione ISEE è necessario che l’interessato presenti la dichiarazione sostituiva unica (DSU) e cioè un documento che contiene le informazioni di carattere anagrafico, reddituale e patrimoniale necessarie a descrivere la situazione economica del nucleo familiare con la quale si ottiene l’indicatore ISEE per la richiesta di prestazioni sociali agevolate.
Nel nostro caso, era accaduto che la ricorrente, per errore, non aveva indicato integralmente i redditi percepiti nell’anno di riferimento e tale errore era stato evidenziato nell’ISEE rilasciato dall’Inps.
Peraltro l’Inps, pur mettendo in evidenza la difformità, ha comunque inserito i dati reddituali mancanti, in quanto avuti dalla Agenzia delle Entrate, ed ha quindi certificato un ISEE rispondente alla effettiva situazione economica della ricorrente compatibile con la prestazione richiesta.
Tuttavia l’Inps non intendeva erogare la prestazione in quanto la DSU presentata dalla ricorrente non era conforme all’ISEE certificato dall’Istituto e la ricorrente non aveva presentato una DSU integrativa nel termine di 30 giorni.
Quello che emerge di tutta evidenza in questa vicenda è che, a fronte della sussistenza dei requisiti sostanziali per il diritto alla prestazione, la ricorrente si era vista negare il diritto per non avere segnalato redditi, comunque conosciuti dall’Inps e che, ove considerati, non sarebbero stati di ostacolo al riconoscimento della prestazione.
La decisione sul punto del giudice del lavoro appare non solo corretta sotto il profilo giuridico ma anche dettata dal buon senso; si legge, infatti, nella pronuncia “ A quanto si comprende, secondo l’INPS, rilevate le omissioni, la parte avrebbe dovuto attivarsi, e presentare una nuova DSU oppure richiedere la prestazione sulla base dell’attestazione ISEE recante le omissioni o le difformità. In effetti, la lettera del comma 5 (del dPCM 159/13) sembra disporre in tal senso. Peraltro, la richiesta della prestazione mediante l’attestazione ISEE consiste nella sua presentazione all’ente erogatore. Ma, laddove l’ente erogatore sia lo stesso INPS che rilascia l’attestazione, appare inutilmente formalistico esigere che il soggetto dichiari espressamente che non presenterà una nuova DSU e che intende avvalersi dell’attestazione ISEE contenente le rettifiche, se i presupposti sussistono, visto che quell’attestazione è valida, ai sensi della disposizione regolamentare, per ottenere l’erogazione della prestazione. Parimenti, appare inutilmente formalistico negare la prestazione se l’INPS ha comunque verificato, sia pure rettificando la DSU, che i presupposti per la sua percezione sussistono”.
In conclusione, se è vero che non si deve ignorare e dimenticare che nel diritto è la forma che manifesta la sostanza è altrettanto vero che il diritto è fatto per l’uomo e non viceversa e quindi, a determinate condizioni, deve sempre prevalere la sostanza rispetto ad un inutile formalismo.
avv.Emanuele Buttini RG 969 2019